Le parole esistono sempre anche quando desuete come "desueto". Il mio caro amico super informatico da 25 anni a Londra dopo due a New York, quando parla con italiani tira fuori tutte le parole che gli informatici mezze calzette rimasti in Italia negano essere presenti nella lingua italiana.
Io cerco di evitare, tollerando poco più che "computer", giusto perché molto più breve di "elaboratore elettronico".
E' un fatto che le lingue si evolvono, anche con scambi, e che questi sono aumentati con i mezzi di comunicazione di massa (interessante sarebbe uno studio su quanto sia rallentata da questo la graduale differenziazione linguistica che ha accompagnato le migrazioni umane).
Ma non per questo docenti e intellettuali devono subire passivamente la corrente. Frenare è doveroso, considerato che, immancabilmente, data la scarsa condivisione di conoscenze linguistiche, a lasciare tutto in mano ai ragazzi del muretto o agli impiegati che si vogliono dare arie prevale la semplificazione grammaticale dei pensieri espressi e la approssimazione semantica.
Proprio quando pretendono di usare un linguaggio più tecnico molte persone sviluppano una comunicazione approssimativa (che loro direbbero "fuzzy"). Soprattutto confondono le idee di chi è fuori da una ristretta cerchia che tenta di darsi un tono da setta iniziatica, come già con il "latinorum" messo alla berlina nella maschera del dottor Balanzone.
La lingua si impoverisce. Il rischio è la "neolingua" inadatta a pensieri complessi e precisi come in "1984".
Se si sa tenere duro, una parte dei neologismi comunque si stabilizzerà, ma in modo un po' selezionato e dopo aver fatto chiarezza sui significati.
Tornano in italiano parole latine dall'inglese con significati alterati e perfino incompatibili con le parole italiane.
Ad esempio le persone cono convinte che "digitare", che effettivamente ha origine in "digitus", dito, significhi battere a macchina invece si intendeva trasformare in cifre numeriche ("digits") elaborabili elettronicamente. E fin qui nulla di grave.
Vado più in bestia quando il verbo "finalizzare" anziché orientare ad uno scopo diventa concludere. Per stare alle parole "alla maniera inglese" che non sono direttamente quelle inglesi (anche perché è pieno di gente che usa il francese "stage" pronunciandolo all'inglese illudendosi di significare "internship") i danni sono già gravissimi. Pur venendo tutto dal latino "stare" equivalente all'italiano, e, apprendo, dal sanscrito “STHĀ”.
Essendomi occupato anche di giornalismo ho chiarissima la utilità di parole corte non pesanti e facili da mettere nei titoli. Ma quando per anni si chiama "governatore" il presidente della giunta regionale e "premier" quello del consiglio dei ministri si stanno già realizzando psicologicamente riforme costituzionali (nefaste e in Italia anticostituzionali). Governatore appare una attrazione verso la parola "governor" come termine istituzionale statunitense, incurante della storia italiana, non solo semantica, nella quale governatore è uno messo a dominare altri in rappresentanza di un potere superiore. E discutendo di premierato ora molti lo percepiscono come realtà da tempo immanente e non come violento vulnus alla forma della democrazia parlamentare.
Tanto per chiarire che non si tratta di un argomento senza impatti pratici anche gravi.
Aggiungo che l'anglicismo (americano) "di colore" è molto più razzista della parola italiana "negro" erroneamente assimilata alla semantica dello statunitense "nigger" usato in un contesto culturale e storico diverso dal nostro. Chiaro che l'una o l'altra possono essere usate con vari gradi di disprezzo (come milanese, romano, napoletano e un po' tutto) e che parlare di una persona anzitutto qualificandolo negro (o di colore) come non si fa con i "bianchi" è scorretto quanto presentare una donna con incarichi pubblici o professionali, iniziando a descriverne la generosa scollatura e le cosce ben in vista.